LA LUNA NEL BOSCO

di Vittorio Sgarbi

La luna, ad Alcamo, non è come altrove. Ha una luce diversa; è più vicina e più brillante. Sembra di poterla toccare. Qualcuno l’ha fatto. Qualcuno ha iniziato da qui a parlare d’amore.

Prima di tutti Cielo, sotto questo sole. In questa luce, con questi profumi, con questo calore. Ma ancor più la notte, davanti al mare, quando tutto è più vicino:

“Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate;
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia.”

Certamente questi versi hanno più volte risuonato nel cuore di Giacinto Bosco, giovane scultore di Alcamo più di altri innamorato e vicino alla luna. Intorno a questo motivo egli gioca quasi l’intera sua opera.

Una coppia di amanti in ogni modo e con ogni mezzo cerca di salire sulla luna. E intanto riesce ad arrampicarsi con una fune.

Ma è buona anche una scala per raggiungerla direttamente e agevolmente. E persino una scala a chiocciola sulla quale muoversi in due per poi afferrare la falce di luna e portarla con sé, o stare su di lei, seduti.

Chissà come si sta sulla luna? Ma essa può anche essere in bilico su un cono, una conchiglia intorno a cui si avvita una scala.

Quando la luna è conquistata può diventare come un’altalena, ma è anche come la fune per un acrobata. La luna è amica degli amanti. E gli amanti giocano con lei.

La luna è la poesia. Leopardi la interroga, come ricordiamo:

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.”

La luna è silenziosa, la luna è complice, la luna è il naso di Sabrina, la luna accompagna gli amanti nella solitudine della notte.

E Bosco non ce lo racconta, ma lo traduce in immagini; gli amanti sono nudi e longilinei.

Si inseguono quando sono distanti e si abbracciano quando finalmente arrivano sulla luna che è la meta dei loro pensieri, dei loro desideri. Bosco è un’anima semplice, uno scultore essenziale.

È romantico, porta sul mare di Sicilia i pensieri di Folon. Rende gentile Giacometti. Per lui la scultura è una dichiarazione d’amore, un’espressione di gentilezza d’animo. Un piccolo idillio amoroso.

La pelle dell’uomo è più scura, quella della donna più chiara. Gli amanti si cercano, si tengono per mano, si abbracciano, si carezzano, si aiutano a prendere la luna, si baciano.

Bosco ha un tocco leggero, con una superficie scabra, come quella di una lucertola tratta dall’interno delle piante essiccate del fico d’india, ubertoso ad Alcamo.

La sua ispirazione è lirica come lo fu quella di Attilio Torresini, di Francesco Messina, di Silvestre Cuffaro, di Aurelio De Felice, di Luigi Broggini. Bosco scolpisce con delicatezza, con pudore. Plasma la materia con la precisione di un cesellatore.

Mancava alla Sicilia uno scultore nuragico, uno scultore etrusco. I greci avevano concepito bronzetti come ex voto e per il culto dei morti.

Da lì Bosco riparte come se all’idea, all’assoluto d’amore, alla contemplazione della luna, non avessero aggiunto nulla duemilacinquecento anni.

I pensieri degli artisti della Magna Grecia, poco lontano da Alcamo, a Selinunte, a Segesta, attraversano ancora la mente di Bosco con invariato spirito, in un tempo fermo, e con immutata poesia, come nei versi di Saffo, come nei versi di Alceo.

La luna dei poeti greci, e la luna di Ciullo, e la luna di Leopardi, è la luna di Bosco.

Vittorio Sgarbi Critico e storico dell’arte

CRITICA