GIACINTO BOSCO:
L'AMORE TRA MITOLOGIA E MITOGRAFIA

di Angelo Crespi

Una scultura esemplifica in modo perfetto la poetica di Giacinto Bosco tra mitologia e mitografia: da un lato, infatti, l’artista siciliano trae forza per le sue composizioni dal mito, dall’altra ne compie una riscrittura continua, tanto da modificarne o accrescerne il senso. Nel gruppo scultoreo in questione, alla base di un viale delimitato da alberi che si allunga prospetticamente verso il cielo, quasi fosse un trampolino, sta una figura di uomo, intento a suonare il flauto; nel mezzo della via, una donna è nell’atto di scendere verso di lui, attratta dal suono che non udiamo, ma c’è.

La scena echeggia in noi una memoria culturale, ci sembra di riconoscere Orfeo ed Euridice; d’altronde i cipressi e la loro ombra rimandano ai sepolcri cantati da Ugo Foscolo e, pur nella levità dei gesti, qualcosa ricorda la catabasi del poeta nell’Ade in cerca della sposa morta.

È uno dei miti più antichi e persistenti della nostra storia che viene tramandato dal VI secolo a.C. e ha avuto una prima definizione nelle Metamorfosi di Ovidio e infinite successive rielaborazioni. Orfeo, a cui Apollo ha donato la lira e che è in grado di incantare le belve con il canto, ottiene il permesso dagli Dei di discendere negli Inferi per riportare alla luce l’amata Euridice, ma solo a patto che nella risalita non si volti mai a guardarla.

L’impresa fallisce, resta però la sempre esuberante significanza del mito sui cui si sofferma Iosif Brodskij analizzando una poesia assoluta di Rainer Maria Rilke dal titolo Orfeo. Euridice. Ermes (1904), in una sorta di triplice rispecchiamento in cui un poeta scrive di un altro poeta che, a sua volta, ha descritto un poeta. Brodskij ha ben chiaro che se una poesia e, aggiungiamo noi, un’opera d’arte, affronta un tema mitologico, abbiamo una realtà che indaga sulla propria storia o, più precisamente, “un effetto che sottopone la propria causa a una lente d’ingrandimento e ne rimane abbagliato”.

L’effetto del mito, cioè l’artista o il poeta, con la lente di ingrandimento in mano, guarda la propria causa, cioè il mito stesso, ciò che gli ha dato vita, guarda quello che sta al principio della sua ricerca, all’origine del suo lavoro, guarda quell’intensa luce primigenia e ne resta abbacinato, perché la luce è sempre troppo intensa rispetto alle possibilità dello sguardo ed essa genera ulteriore luce e ulteriori significati non subito comprensibili: “Come un germoglio che ad ogni primavera fa spuntare una nuova foglia, un mito genera in ogni cultura il proprio portavoce, secolo dopo secolo”, un individuo, un poeta o un artista, come Bosco, che ne possa perlustrare i confini; i miti che hanno sede nella memoria degli uomini, in una memoria collettiva e più atavica e più vasta di quella del singolo individuo, sono un genere rivelatorio, “si occupano dell’interazione tra gli dèi e i mortali, tra infiniti e finiti”, ed è per questo che sempre è utile e necessario tornarvi.

La scultura in questione di Bosco ci sorprende: di primo acchito ripropone il mito di Orfeo, ma all’uomo non è germogliata sul braccio sinistro la lira, suona invece il flauto. Potrebbe essere Lino, musico eccellente, fratello di Orfeo. Oppure Marsia, maestro nell’aulos, nel flauto doppio. Tutt’e tre, Orfeo, Lino, Marsia destinati a fine tragica: il primo smembrato delle Menadi, il secondo sbranato dai cani, il terzo scorticato da Apollo.

(Breve inciso: la fine di Marsia ci induce a una piccola riflessione tecnica sulla superficie ruvida delle sculture di Bosco, quasi che i protagonisti fossero davvero stati scorticati dal loro desiderio come un fuoco che “scorre sotto la pelle”, aveva scritto 2500 anni fa Saffo, e che tramortisce e scolora… una superficie vibrante ottenuta, durante una fase specifica della lavorazione, frapponendo alla dura materia le foglie carnose del fico d’India che rimandano alla terra dello scultore di Alcamo). Per ora non è però tempo di morte: l’uomo intona una melodia ed attrae la donna a sé, la donna pare titubare.

Nella scrittura di Rilke, tutto si conclude quando Orfeo quasi all’uscita, in alto, si gira per assicurarsi che la moglie lo segua, e vede Euridice “già” voltata che torna verso il fondo. Il poeta tedesco con un semplice “già” coglie la simultaneità dell’atto, la mancata promessa di Orfeo di non girarsi, la subitanea dimenticanza di Euridice.

Bosco propone una versione contraria del mito, l’uomo sta in basso, la donna più in alto è presa nell’atto di scendere verso di lui, ma se ne coglie l’esitanza, le braccia lungo il corpo, le mani appena rivolte in un segno forse di amorevole adesione che a guardarlo più attentamente potrebbe essere scambiato per un rifiuto: chi non ricorda l’esitazione della Annunciata di Antonello da Messina il cui breve gesto della mano ne adombra lo stupore, quasi la perplessità di Maria di essere stata scelta come madre di Dio? Ecco non siamo sicuri che l’amore tra i due si concluda, essi sono colti in quella breve frazione di tempo durante la quale tutto può succedere e non è ancora accaduto, il momento dell’innamoramento.

La stessa dedizione mitopoietica segna molte altre sculture di Bosco che è diventato, per antonomasia, il cantore della luna. I suoi sono “piccoli idilli amorosi”, ha scritto Vittorio Sgarbi, “dove il misterioso tramite delle emozioni si risolve in un incantevole linguaggio plastico”, ha puntualizzato Paolo Levi, figure tanto elementari quanto struggenti, dalle quali traspare la solennità di sentimenti antichi e primari; il più presente è quello dello stupore umano di fronte all’astro notturno, che, tra i tanti, fu cantato da poeti come Ariosto, Leopardi e Borges e che ispirò musicisti come Beethoven e Debussy, solo per citarne alcuni, le cui opere a loro volta sono modelli per lo stesso scultore.

Ma Bosco, nel suo atto di reinventare il mito, di coglierne l’essenza archetipale, di fondarne ulteriore significato, non teme di citare perfino produzioni pop o popolari, o di cultura bassa, per esempio il cinema, che sono però diventate nel corso del Novecento dei classici: in uno dei più commoventi film della storia, lo splendido La vita è meravigliosa di Frank Capra (1946), i due protagonisti, l’assoluto James Stewart e la bellissima Donna Reed, giocano canticchiando un motivetto celebre negli States come Buffalo Gals, le cui strofe fanno chiaro riferimento alla luna (“And we danced by the light of the moon / E abbiamo ballato alla luce della luna”), e quando George chiede a Mary cosa desidera, lei gli indica la luna e lui promette che gliela prenderà, tanto che in un sequenza successiva al duetto d’amore si vede un piccolo quadro su cui Mary ha ricamato la scenetta intitolandola “George lassos the moon” (George prende al lazo la luna).

Il lavoro di Giacinto Bosco si concentra dunque sulla riscrittura in chiave di mito del sentimento dell’amore. Non c’è però nessuna tentazione archeologica, semmai la rappresentazione in chiave moderna e simbolica del desiderio d’amore. Quella di Bosco è infatti una mitologia personale e universale in quanto riflessione sul particolare, ed è proprio qui la grandezza dell’arte: cogliere nel frammento l’eternità; le sue figure hanno la leggerezza di un Peynet e di un Folon, ma nella solida resistenza del bronzo, gravi eppur leggere, sono una plastica rappresentazione del desiderio desiderante che unisce la donna e l’uomo.

La luna è lo specchio borgesiano di questo desiderio che Bosco, ingannandoci grazie a una tecnica straordinaria, configura come punto di tensione a cui gli amanti si rivolgono. La luna è una sorta di punto fermo, come il punto geometrico a cui si appende il pendolo di Foucault che resta fermo consentendo che il piano di oscillazione si mantenga fisso, mentre intorno la terra ruota e l’universo gira. Le sculture alcune monumentali, la più imponente di 7 metri, rappresentano al meglio la qualità delle opere di Bosco, in cui la solidità del bronzo viene messa al servizio della leggerezza del sentimento d’amore; le sue figure, anelanti alla luna, sembrano librarsi mentre si dondolano su altalene appese al cielo, o tentano esercizi di equilibrio tenendosi sollevati su sedie e scale, arrampicandosi su funi gettate verso la luna, con la stessa levità degli amanti in volo di Chagall.

Angelo Crespi Giornalista e critico d'arte

CRITICA