CHE FAI TU, LUNA, IN CIEL? DIMMI CHE FAI, SILENZIOSA LUNA?

di Paolo Levi

Subito ci si avvede che, in questa realizzazioni immaginifiche, c’è una specie di missione liberatoria. Giacinto Bosco annuncia che l’utopia, attraverso molteplici momenti di vera poesia, può trasmettere il suo messaggio nel cuore dell’osservatore.

Tutti noi abbiamo più di un motivo per essere grati a questo maestro di fiabe e creatore di momenti pieni di dolcezza.

Il suo modo non conformista di esprimersi rappresenta la più veritiera possibilità per contrastare quella sperimentazione contemporanea, che utilizza materiali insoliti, dissacrando il vivo e il bello dell’arte e decretandone la morte irreversibile.

I lavori di Bosco, fatti di pathos e ragione mirabilmente coniugati, restituiscono un ruolo al valore della figurazione. La sua sensibilità plastica si ritrova ad agire dentro l’eccezionalità di una sintesi lirica, di un risveglio a una poeticità, di cui ormai sembrava che fosse andato smarrito il significato.

È questo il motivo per cui questo scultore si trova a suo agio nel modellare la materia, dove la sua ingegnosa sensibilità si dispiega senza inibizioni formali, dove il misterioso tramite delle sue emozioni si risolve in un incantevole linguaggio plastico.

I suoi lavori riempiono lo spazio in un discorso attivo e unitario, ed è chiaro che egli accoglie tutti quei conforti di cultura, che l’esperienza passata di chi lo ha preceduto nell’arte gli ha offerto.

Credo, quindi, che sia opportuno dichiarare come, in un momento così poco felice dal punto di vista della creatività, la ricerca di Giacinto Bosco abbia pieno diritto a una giusta collocazione storica e critica.

Va detto innanzi tutto che i suoi lavori, pur conservando la lezione espressiva della tradizione del secondo Novecento, assumono il valore inedito della narrazione di una fiaba amorosa, ponendosi fuori dal tempo e dalla storia.

Eseguiti in tuttotondo, secondo i crismi tecnici del bronzo a cera persa, le sue opere ci invogliano a riflettere sulle capacità rara che lo contraddistingue di conciliare la sua memoria storica con capacità esecutive del tutto originali, e certamente non collocabili in canoni formali già stabiliti altrove e in altri tempi.

Questi racconti plastici mettono in luce un’arte che si apre espressivamente all’enigma dall’inconscio, in un processo di approfondimento culturale e di soggettiva introspezione, capace di offrirgli intuizioni magiche, e insieme il potere di trasformarle in materia viva e pulsante: nel suo caso in simboli di candida leggerezza e in allusioni arcane.

Tutto questo, Bosco lo elabora in figure tanto elementari quanto struggenti, dalle quali traspare la solennità di sentimenti antichi e primari.

Le due figure che ricorrono in un ciclo di composizioni dove la luna diventa simbolo universale e metafora amorosa – Ti prendo la luna è il titolo di un gioco tutto ascensionale, una sublimazione del sentimento che unisce una coppia – esprimono qualcosa di elementare, unitamente alla sacralità di un rituale intimo. Il gesto più semplice, anche solo il tenersi per mano, assume così la potenza di una consacrazione, di una promessa per l’eternità.

Questa coinvolgente poetica è fatta di contrappunti figurali rasserenanti; sono forme riconoscibili, sulla soglia dell’astrazione lirica, che nascono da una sapiente capacità manuale, dove il movimento delle figure si risolve in danza leggera.

Questa immaginazione plastica è un cammino in linea retta, ovvero un procedere verso una figurazione che guarda indirettamente all’essenzialità dell’arte primitiva.

Ho voluto incontrare Giacinto Bosco nel suo atelier vicino a Milano, dove lavora circondato da opere che, sin dal primo impatto, sembrano venire incontro a chi ad accogliere il visitatore, che si trova a osservare e a partecipare inevitabilmente a eventi di passione, come il bronzo Travolti dalla luna, la rappresentazione di un amplesso che sembra l’appagamento di una coppia di amanti dopo significanti vicissitudini.

A vedere i suoi lavori si comprende quanto sia importante il rapporto intimistico che egli intrattiene con il nucleo portante del suo messaggio, con la trama segreta che avvince due anime, con il gioco tenero e forte, ma del tutto singolare, di un’invenzione allegorica, dove la luna diventa altalena, giaciglio amoroso, punto di raccordo fra cielo e terra, concretizzazione del desiderio, traghettatrice magica di sogni e protettrice di sensualità.

Giacinto Bosco conduce la sua ricognizione con la vocazione dell’artista di talento, che sa operare facendo dono ad ogni particolare della patina cromatica più consona al momento visivo che ha scelto di rappresentare – l’azzurro del corpo maschile, il bianco di quello femminile, dorati gli elementi scenografici, bianca o dorata la luna ma liscia e lucida, mentre appaiono scabre tutte le altre superfici – esplorando magistralmente tutte le potenzialità pittoriche e plastiche della materia bronzea.

Ma solo in apparenza questi lavori comunicano un messaggio lieve e accattivante; in verità, non c’è qui una ricerca di evasione, ma piuttosto la riduzione all’essenzialità di certe favole nordiche, dove sogno e realtà si ricompongono in pura lirica dei sentimenti.

L’artista riesce a relazionarsi assai bene con una mitologia espressa sotto forma di simboli, in un gioco garbato e in una rappresentazione del tutto inedita. Il racconto ha una semplicità disarmante, senza orpelli retorici.

Eppure, ogni visione appare coinvolgente per la densità dei sottintesi, dove ogni atto appare chiuso e concluso, sintesi di una vicenda semplice, ma forse complicata, gioiosa o dolorosa, forse anche impossibile e solo vissuta nell’immaginazione. Ma di quella vicenda resta per sempre fissato nel bronzo un momento unico e irripetibile, tanto importante da proiettare la sua luce nello spazio infinito del ricordo.

L’agire simbolico dei due amanti non è solo l’epilogo vincente di Eros, ma motore di una narrazione epica, che si concatena in tutte le varianti dettate dall’intelligenza del cuore.

Ciò che persuade, in questo ciclo di composizioni di grande musicalità espressiva, è la soave capacità dell’artista di evocare, come in un gioco di prestigio, la forza inarrestabile dell’amore, che arriva persino a catturare la luna, che sta nel cielo e in fondo al proverbiale pozzo; una luna non più, o non solo, divinità propiziatoria, ma concreta presenza che prende corpo grazie alla forza del desiderio.

Tutto quindi si compie in cielo e in terra, con l’unione del maschile e del femminile, come suggerisce l’antico concetto orientale dello Yin e dello Yang. La luna ne è testimone e complice in ogni momento, perché stabilisce da sempre le scansioni del tempo e delle stagioni, della notte e del giorno, perché custodisce i sogni, assiste gli amanti, e ne celebra lo sposalizio. Giacinto Bosco con queste sue opere, belle di forma e felici di contenuto, sembra voler rispondere con un inno alla vita al mito di Orfeo ed Euridice, dove è la morte, invece, a vincere sull’amore. O ancora, l’efebica nudità dei suoi protagonisti rimanda a un clima edenico, a un Adamo ed Eva prima della perdita dell’innocenza.

Sono tanti gli stimoli che suggeriscono gli accostamenti ad antichi archetipi, quante sono le ragioni poetiche che ispirano ogni singolo episodio, in un percorso visivo di grande spessore estetico e formale; e se Bosco esplora un terreno già sondato a lungo dal Surrealismo storico, tuttavia non gioca mai sull’indecifrabilità del mondo onirico, avendo scelto di procedere in un territorio fatto di stupori, di sogni fiabeschi portatori di un buon risveglio.

Da dove sgorga, infine, questo pathos poetico? È a questa domanda che bisogna rispondere, per cogliere il significato più autentico della ricerca di Bosco: a mio avviso, sta nel sentimento profondo che egli ha del suo lavoro, lo stesso sentimento dei Romantici, che guardavano alla passione amorosa come metafora di tutte le libertà, come motore di creatività, come guida luminosa nei percorsi oscuri della vita.

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